Buen Camino sorprende perché, dietro la struttura della commedia, lascia emergere una vena malinconica che accompagna lo spettatore fino ai titoli di coda. Checco Zalone resta fedele al suo gusto per la battuta fulminante, per l’ironia popolare e immediata, ma questa volta sembra usarla come schermo per parlare d’altro: del tempo che passa, delle responsabilità mancate, di un Paese e di una generazione che faticano a crescere.
Il cuore emotivo del film è il rapporto padre/figlia. Un legame imperfetto, fatto di assenze, goffaggini e tentativi tardivi di rimediare. Zalone racconta la paternità senza idealizzarla: il padre non è un eroe, ma un uomo pieno di limiti, che prova a fare del suo meglio quando forse è già in ritardo. È proprio qui che la comicità si incrina e lascia spazio a una tenerezza amara, capace di rendere il film più profondo di quanto sembri a prima vista.
Il gusto per la battuta rimane centrale: le gag funzionano, i dialoghi sono calibrati. Ma la risata non è mai fine a se stessa. Serve piuttosto a rendere digeribile un messaggio più scomodo: la necessità di assumersi delle responsabilità, di cambiare strada, di accettare che crescere significa anche rinunciare a qualcosa. Il “cammino” del titolo non è solo fisico, ma soprattutto interiore.
Il successo al botteghino non è casuale. Buen Camino è un campione d’incassi anche perché il film non è brutto, anzi: è curato, ben girato, sostenuto da una fotografia luminosa che valorizza i paesaggi e accompagna lo stato d’animo dei personaggi. Zalone dimostra di saper parlare a un pubblico vasto senza rinunciare a una certa delicatezza. E forse è proprio questa miscela di leggerezza e malinconia a rendere il film così efficace e, a suo modo, necessario.