Con Cinque secondi, Paolo Virzì firma il suo film più intimo e spiazzante. Tutto nasce da un momento di vuoto: cinque secondi che cancellano il “prima” e aprono un “dopo” fatto di senso di colpa, silenzi e isolamento. Adriano, ex professionista di successo, si ritira in una villa di campagna, incapace di convivere con ciò che è accaduto. La depressione qui non è spettacolo: è immobilità, sguardo spento, rifiuto di ogni contatto. Un film sul prendersi cura. Sull’abbandonarsi. Sul precipitare.
Virzì evita la retorica del melodramma e costruisce un racconto che avanza per sottrazione: la tragedia non è mostrata, ma percepita. Il peso del lutto emerge dalle crepe della quotidianità, dal gesto semplice che manca, dalla chiusura verso il mondo. L’arrivo di un gruppo di giovani che vuole riportare in vita il vigneto vicino introduce una luce inattesa. Non sono “salvatori”, ma un’energia diversa: il lavoro sulla terra, la comunità, un futuro da costruire. Adriano li osserva da lontano, quasi infastidito, finché la loro presenza incrina lentamente il muro del suo isolamento.
La rinascita non è un colpo di scena, ma un processo fragile: piccoli dialoghi, gesti minimi, la scoperta che il dolore può convivere con qualcosa di nuovo. Il film suggerisce che non sempre c’è un perdono possibile, ma esiste una cura: aprirsi agli altri, accettare di non essere soli.
Cinque secondi parla di perdita, ma soprattutto di resistenza emotiva. È un film che sussurra, non grida; che fa male, ma lascia intravedere una strada. Ricorda che bastano pochi attimi per distruggere una vita — e molti, pazienti, per ricominciare a viverla.